venerdì 14 agosto 2009
PULMAN ECOLOGICI
In Norvegia gli autobus vanno con le acque reflue
pubblicato: venerdì 14 agosto 2009 da Marina in: Europa Risparmio energetico Acqua
In Norvegia, precisamente a Oslo, hanno deciso di impegnarsi molto seriamente non solo per abbattere le emissioni di C02, per migliorare i trasporti pubblici e per sganciarsi dalla dipendenza del petrolio, ma anche per assicurare uno sviluppo sostenibile in armonia con l’ambiente.
Insomma, la soluzione è stata trovata nelle acque reflue della città che andranno adalimentare gli autobus cittadini, 350 per l’esattezza, che dalla fine del 2010 useranno biometano ricavato da due impianti per il trattamento delle acque nere. Il metano sarà prodotto dal prossimo settembre. Ha detto Ole Jakob Johansen, manager del progetto:
Oslo mira ad essere una delle capitali più sostenibili al mondo sul piano ambientale. Usare biometano ha senso. Non soltanto infatti quello prodotto dalla rete fognaria andrebbe perso, ma la riduzione di emissioni calcolata per ogni bus sarà un passo nella lunga strada per le emissioni zero.
NUVOLE ARTIFICIALI PER SALVARE LA TERRA
Nuvole artificiali, scudo bianco che salverà la Terra
Studio danese: spariamole con i cannoni. Sistema ideato per riflettere i raggi solari e sconfiggere il "global warming"
Una flotta da combattimento climatico per dichiarare guerra al global warming. Millenovecento navi schierate sugli oceani per sparare raffiche di pulviscolo a 5 chilometri di altezza, in modo da seminare nuclei di condensazione capaci di far nascere nuvole. In questo modo, utilizzando l'umidità dei mari per favorire il processo, si può creare uno schermo contro le radiazioni solari, uno scudo per respingere al di là dell'atmosfera una parte del calore in entrata. L'idea, rilanciata ieri dal Times e dal Financial Times, porta la firma del Copenaghen Consensus Center, un think tank diretto da Bjorn Lomborg, il docente di statistica diventato famoso dopo aver scritto "L'ambientalista scettico". Secondo lo studio del Copenaghen Consensus Center, creare artificialmente le nuvole è meno costoso, in termini di riscaldamento evitato, delle politiche di riduzione delle emissioni che minano la stabilità del clima. Invece di riportare gli ecosistemi in equilibrio riducendo il peso dei fattori che li hanno sconvolti, e cioè tagliando i gas serra, il gruppo di Lomborg propone una cura basata sull'aumento dell'artificializzazione. La geoingegneria, figlia degli studi condotti durante la guerra fredda per modificare il tempo in territorio nemico, mira a prendere con la forza il controllo del clima non solo creando nuvole ma usando un intero arsenale di strumenti d'attacco. Ad esempio imbiancando le nubi esistenti, cioè spruzzando piccole gocce di acqua di mare nella parte bassa dell'atmosfera per modificare l'albedo delle nuvole, cioè la loro capacità di riflettere la luce solare. Oppure "fertilizzando" gli oceani con polvere di ferro, con iniezioni di azoto o con il rimescolamento delle acque profonde per far proliferare le alghe e catturare, grazie alla loro crescita, anidride carbonica. O ancora sparando grandi quantità di zolfo nell'atmosfera per simulare l'effetto di un'eruzione vulcanica che crea una nube di particelle in grado di schermare la radiazione solare.
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Ipotesi dal sapore di fantascienza che però si sono già trasformate in possibile business per le centinaia di aziende che hanno fiutato l'affare inventando una nuova specializzazione: l'ingegneria su scala planetaria. Una prospettiva che lascia perplessi i più autorevoli climatologi. Secondo Susan Salomon, dell'americana Noaa #National Oceanic and Atmospheric Administration#, "le proposte di geoingegneria comportano rischi consistenti". La maggior parte degli scienziati è convinta che i pericoli siano di gran lunga maggiori dei potenziali vantaggi: la fertilizzazione degli oceani, gli aerosol stratosferici, gli specchi orbitanti per riflettere la luce del sole sono tecniche non sperimentate che alterano in modo imprevedibile il funzionamento di sistemi complessi. Nel caso delle nuvole artificiali si può modificare la piovosità di aree critiche come l'Amazzonia, un ecosistema fondamentale per la sicurezza climatica. Nel caso della simulazione di un'eruzione vulcanica aumentano le piogge acide e si danneggia l'agricoltura. Le nuvole stesse costituiscono un elemento di incertezza perché la loro presenza può avere due conseguenze opposte: a una certa altezza respingono le radiazioni solari in arrivo raffreddando l'atmosfera, a una quota inferiore moltiplicano l'effetto serra. Sarebbero abbastanza alte quelle che si potrebbero creare con i "cannoni" che sparano le particelle addensanti? Vale la pena dirottare a questo scopo risorse destinate alla creazione di un sistema energetico più efficiente? Sul Bullettin of the atomic scientist Alan Robock, direttore del Centro per le previsioni ambientali della Rutgers University, ha pubblicato un'analisi titolata "Venti ragioni per cui la geoingegneria può essere una cattiva idea" elencando una serie di controindicazioni. La progressiva acidificazione degli oceani che non si può arrestare senza un drastico taglio delle emissioni di anidride carbonica, cioè senza abbattere l'uso dei combustibili fossili e la deforestazione. La distruzione da parte degli aerosol dello strato di ozono, un disastro che renderebbe inutili gli accordi di salvaguardia firmati a Montreal. L'impossibilità di tornare indietro una volta rotto l'equilibrio della natura.
Studio danese: spariamole con i cannoni. Sistema ideato per riflettere i raggi solari e sconfiggere il "global warming"
Una flotta da combattimento climatico per dichiarare guerra al global warming. Millenovecento navi schierate sugli oceani per sparare raffiche di pulviscolo a 5 chilometri di altezza, in modo da seminare nuclei di condensazione capaci di far nascere nuvole. In questo modo, utilizzando l'umidità dei mari per favorire il processo, si può creare uno schermo contro le radiazioni solari, uno scudo per respingere al di là dell'atmosfera una parte del calore in entrata. L'idea, rilanciata ieri dal Times e dal Financial Times, porta la firma del Copenaghen Consensus Center, un think tank diretto da Bjorn Lomborg, il docente di statistica diventato famoso dopo aver scritto "L'ambientalista scettico". Secondo lo studio del Copenaghen Consensus Center, creare artificialmente le nuvole è meno costoso, in termini di riscaldamento evitato, delle politiche di riduzione delle emissioni che minano la stabilità del clima. Invece di riportare gli ecosistemi in equilibrio riducendo il peso dei fattori che li hanno sconvolti, e cioè tagliando i gas serra, il gruppo di Lomborg propone una cura basata sull'aumento dell'artificializzazione. La geoingegneria, figlia degli studi condotti durante la guerra fredda per modificare il tempo in territorio nemico, mira a prendere con la forza il controllo del clima non solo creando nuvole ma usando un intero arsenale di strumenti d'attacco. Ad esempio imbiancando le nubi esistenti, cioè spruzzando piccole gocce di acqua di mare nella parte bassa dell'atmosfera per modificare l'albedo delle nuvole, cioè la loro capacità di riflettere la luce solare. Oppure "fertilizzando" gli oceani con polvere di ferro, con iniezioni di azoto o con il rimescolamento delle acque profonde per far proliferare le alghe e catturare, grazie alla loro crescita, anidride carbonica. O ancora sparando grandi quantità di zolfo nell'atmosfera per simulare l'effetto di un'eruzione vulcanica che crea una nube di particelle in grado di schermare la radiazione solare.
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Ipotesi dal sapore di fantascienza che però si sono già trasformate in possibile business per le centinaia di aziende che hanno fiutato l'affare inventando una nuova specializzazione: l'ingegneria su scala planetaria. Una prospettiva che lascia perplessi i più autorevoli climatologi. Secondo Susan Salomon, dell'americana Noaa #National Oceanic and Atmospheric Administration#, "le proposte di geoingegneria comportano rischi consistenti". La maggior parte degli scienziati è convinta che i pericoli siano di gran lunga maggiori dei potenziali vantaggi: la fertilizzazione degli oceani, gli aerosol stratosferici, gli specchi orbitanti per riflettere la luce del sole sono tecniche non sperimentate che alterano in modo imprevedibile il funzionamento di sistemi complessi. Nel caso delle nuvole artificiali si può modificare la piovosità di aree critiche come l'Amazzonia, un ecosistema fondamentale per la sicurezza climatica. Nel caso della simulazione di un'eruzione vulcanica aumentano le piogge acide e si danneggia l'agricoltura. Le nuvole stesse costituiscono un elemento di incertezza perché la loro presenza può avere due conseguenze opposte: a una certa altezza respingono le radiazioni solari in arrivo raffreddando l'atmosfera, a una quota inferiore moltiplicano l'effetto serra. Sarebbero abbastanza alte quelle che si potrebbero creare con i "cannoni" che sparano le particelle addensanti? Vale la pena dirottare a questo scopo risorse destinate alla creazione di un sistema energetico più efficiente? Sul Bullettin of the atomic scientist Alan Robock, direttore del Centro per le previsioni ambientali della Rutgers University, ha pubblicato un'analisi titolata "Venti ragioni per cui la geoingegneria può essere una cattiva idea" elencando una serie di controindicazioni. La progressiva acidificazione degli oceani che non si può arrestare senza un drastico taglio delle emissioni di anidride carbonica, cioè senza abbattere l'uso dei combustibili fossili e la deforestazione. La distruzione da parte degli aerosol dello strato di ozono, un disastro che renderebbe inutili gli accordi di salvaguardia firmati a Montreal. L'impossibilità di tornare indietro una volta rotto l'equilibrio della natura.
ALLARME CLIMA IL NUOVO NEMICO
Allarme clima Per il Pentagono è il nuovo nemico
Uragani e carestie al centro dei war games dei generali Usa. Le nuove guerre saranno scatenate da fattori "ambientali"
Non solo russi, cinesi, iraniani, arabi e coreani. Nella lista dei nemici potenziali dell’America accanto a loro oggi sono apparsi tifoni, carestie, alluvioni, cicloni, tsunami. Il deserto che avanza e il ghiaccio polare che si scioglie vengono catalogati come minacce accanto a Bin Laden e Kim Jong-il. Attacchi missilistici delle potenze nucleari, codici militari violati, Stati-canaglia che rubano l’atomica, terroristi islamici che complottano per colpire le città dell’Occidente: gli incubi che per anni hanno affollato le menti degli strateghi del Pentagono non sono più questi. O almeno non solo. Forse perfino peggiori di quelli della guerra fredda, perché con la natura non si può trattare e non si può mandare una squadra di superaddestrati marines a eliminare l’effetto serra.E’ una nuova guerra mondiale.
Da quest’anno il Pentagono e il Dipartimento di Stato Usa catalogano il clima come una delle minacce alla sicurezza nazionale americana. Esperti di intelligence e analisti studiano i calendari dei monsoni e le siccità in Africa. Di recente sono state svolte simulazioni di «war games» su disastri indotti dai cambiamenti climatici, utilizzando sofisticati programmi di simulazione del clima usati dalla Marina e dall’Aviazione, insieme alle ricerche della Nasa e dell’Amministrazione nazionale per l’Oceano e l’Atmosfera. Un’esercitazione «virtuale» alla National Defense University ha affrontato il «modello» di un’alluvione devastante nel Bangladesh: centinaia di migliaia di profughi spinti dall’acqua in India, già sovrappopolata, facendo scoppiare incendiari conflitti per il territorio, scontri tra genti di religioni differenti e diffondendo malattie contagiose importate dalla zona del disastro, con conseguente crollo delle già fragili infrastrutture dell’area. Uno scenario alquanto probabile che, nella simulazione, «diventa subito estremamente complicato», dice al New York Times Amanda J. Dory, che lavora con il gruppo del Pentagono incaricato di inserire nell’agenda della sicurezza nazionale le minacce derivanti dal cambiamento climatico.Che sono tante e inesorabili. Cicloni e siccità possono scatenare pandemie e carestie che spingono a migrazioni di massa, milioni di persone in fuga, a combattere per risorse elementari come il cibo e l’acqua, che all’improvviso diventano drammaticamente insufficienti per tutti. Situazioni nelle quali sguazzerebbero movimenti terroristici ed estremisti di varia natura, tragedie che alimenterebbero nazionalismi violenti e guerre religiose, facendo vacillare governi di mezzo mondo. Secondo i «war games» svolti dal Pentagono e le ricerche delle agenzie di intelligence americane, già oggi si possono delineare le aree maggiormente a rischio nei prossimi 20-30 anni per questi sconvolgimenti «clima-dipendenti»: l’Africa sub-sahariana, una delle zone più popolate e povere del mondo, il Medio Oriente, dove gli antichi conflitti politico-religiosi potrebbero ricevere nuova linfa dalla mancanza dell’acqua e dall’esplosione demografica, e il Sud-Est asiatico, dove centinaia di milioni di persone vivono sotto la spada di Damocle di violenti terremoti, tsunami e uragani. Pericoli ormai considerati inesorabili: anche se i diversi negoziati sul cambiamento climatico porteranno alla drastica riduzione delle emissioni di gas serra, il meccanismo già avviato di riscaldamento globale rischia comunque di produrre delle conseguenze nei prossimi decenni. E così dai tentativi di prevenzione si passa ai più pragmatici piani per affrontare emergenze inevitabili. Sia da un punto di vista umanitario - l’esercito e l’aviazione americana studiano piani per ponti aerei e interventi urgenti in caso di disastri naturali e migrazioni di massa - che da un punto di vista strategico. Milioni di persone senza casa, senza mezzi di sostentamento e senza cibo, in fuga da uno tsunami o da un’epidemia possono diventare un pericolo sociale e politico, e quindi anche militare. E il moltiplicarsi delle emergenze umanitarie in giro per il mondo, avverte il National Intelligence Council, rischia di impegnare risorse militari destinate alle attività belliche vere e proprie.L’innalzamento del livello dei mari cambia già oggi lo scenario di eventuale guerra, mettendo a rischio diverse postazioni americane. Alcune basi dell’aviazione in Florida sono state distrutte o danneggiate dagli ultimi uragani, e il livello dell’oceano in aumento costringe a riprogettare le basi navali a Norfolk e San Diego. Ancora più a rischio è la base a Diego Garcia, l’atollo nell’oceano Indiano snodo cruciale per le forze americane e britanniche in Medio Oriente. L’isolotto è praticamente a livello del mare, e potrebbe venire sommerso se le previsioni sull’innalzamento degli oceani si avverassero. Lo scioglimento dei ghiacci apre invece un «buco» nelle difese polari: nella calotta artica si apre un canale navigabile che richiedere la revisione di tutti i piani strategici di diversi Paesi.Un esempio di guerra «clima-dipendente» esiste già, dice al New York Times John Kerry, ex candidato democratico alla presidenza e oggi, da presidente del Comitato per le relazioni internazionali del Senato, capofila di questa nuova battaglia ecologico-strategica. E’ il Sudan meridionale, dove la siccità e la crescita dei deserti ha ucciso o costretto alla fuga decine di migliaia di persone, producendo un conflitto per ora senza soluzione: «E’ un’esperienza destinata a ripetersi, e su scala sempre più vasta», dice il senatore, che per conto di Barack Obama si appresta a convincere il Senato ad approvare il pacchetto di leggi sul clima e l’energia già votato a giugno dalla Camera. Userà, tra gli altri, il nuovo argomento della minaccia strategica derivante dal mercurio in inarrestabile aumento. L’altra alleata di Obama è Hillary Clinton, che da senatrice aveva autorizzato, nel 2008, modifiche al budget del Pentagono per includere i cambiamenti climatici nei piani strategici. Ci sarà per la prima volta una sezione dedicata al clima nel suo rapporto sulla Difesa che uscirà a febbraio, e il Dipartimento di Stato - oggi guidato proprio da Hillary - farà altrettanto nel suo rapporto su diplomazia e sviluppo. Diverse agenzie di intelligence stanno studiando i vari risvolti del cambiamento climatico, anche a livello delle singole nazioni, per capire se i vari governi riusciranno a reggere la pressione di calamità naturali che producono terremoti sociali, economici e umani. «Dovremo pagare per il cambiamento climatico, in un modo o in un altro», dice il generale Anthony C. Zinni. «O pagheremo per ridurre le emissioni di gas serra, con ripercussioni economiche. O pagheremo il prezzo più tardi, in termini di impiego militare, e di vite umane».
Uragani e carestie al centro dei war games dei generali Usa. Le nuove guerre saranno scatenate da fattori "ambientali"
Non solo russi, cinesi, iraniani, arabi e coreani. Nella lista dei nemici potenziali dell’America accanto a loro oggi sono apparsi tifoni, carestie, alluvioni, cicloni, tsunami. Il deserto che avanza e il ghiaccio polare che si scioglie vengono catalogati come minacce accanto a Bin Laden e Kim Jong-il. Attacchi missilistici delle potenze nucleari, codici militari violati, Stati-canaglia che rubano l’atomica, terroristi islamici che complottano per colpire le città dell’Occidente: gli incubi che per anni hanno affollato le menti degli strateghi del Pentagono non sono più questi. O almeno non solo. Forse perfino peggiori di quelli della guerra fredda, perché con la natura non si può trattare e non si può mandare una squadra di superaddestrati marines a eliminare l’effetto serra.E’ una nuova guerra mondiale.
Da quest’anno il Pentagono e il Dipartimento di Stato Usa catalogano il clima come una delle minacce alla sicurezza nazionale americana. Esperti di intelligence e analisti studiano i calendari dei monsoni e le siccità in Africa. Di recente sono state svolte simulazioni di «war games» su disastri indotti dai cambiamenti climatici, utilizzando sofisticati programmi di simulazione del clima usati dalla Marina e dall’Aviazione, insieme alle ricerche della Nasa e dell’Amministrazione nazionale per l’Oceano e l’Atmosfera. Un’esercitazione «virtuale» alla National Defense University ha affrontato il «modello» di un’alluvione devastante nel Bangladesh: centinaia di migliaia di profughi spinti dall’acqua in India, già sovrappopolata, facendo scoppiare incendiari conflitti per il territorio, scontri tra genti di religioni differenti e diffondendo malattie contagiose importate dalla zona del disastro, con conseguente crollo delle già fragili infrastrutture dell’area. Uno scenario alquanto probabile che, nella simulazione, «diventa subito estremamente complicato», dice al New York Times Amanda J. Dory, che lavora con il gruppo del Pentagono incaricato di inserire nell’agenda della sicurezza nazionale le minacce derivanti dal cambiamento climatico.Che sono tante e inesorabili. Cicloni e siccità possono scatenare pandemie e carestie che spingono a migrazioni di massa, milioni di persone in fuga, a combattere per risorse elementari come il cibo e l’acqua, che all’improvviso diventano drammaticamente insufficienti per tutti. Situazioni nelle quali sguazzerebbero movimenti terroristici ed estremisti di varia natura, tragedie che alimenterebbero nazionalismi violenti e guerre religiose, facendo vacillare governi di mezzo mondo. Secondo i «war games» svolti dal Pentagono e le ricerche delle agenzie di intelligence americane, già oggi si possono delineare le aree maggiormente a rischio nei prossimi 20-30 anni per questi sconvolgimenti «clima-dipendenti»: l’Africa sub-sahariana, una delle zone più popolate e povere del mondo, il Medio Oriente, dove gli antichi conflitti politico-religiosi potrebbero ricevere nuova linfa dalla mancanza dell’acqua e dall’esplosione demografica, e il Sud-Est asiatico, dove centinaia di milioni di persone vivono sotto la spada di Damocle di violenti terremoti, tsunami e uragani. Pericoli ormai considerati inesorabili: anche se i diversi negoziati sul cambiamento climatico porteranno alla drastica riduzione delle emissioni di gas serra, il meccanismo già avviato di riscaldamento globale rischia comunque di produrre delle conseguenze nei prossimi decenni. E così dai tentativi di prevenzione si passa ai più pragmatici piani per affrontare emergenze inevitabili. Sia da un punto di vista umanitario - l’esercito e l’aviazione americana studiano piani per ponti aerei e interventi urgenti in caso di disastri naturali e migrazioni di massa - che da un punto di vista strategico. Milioni di persone senza casa, senza mezzi di sostentamento e senza cibo, in fuga da uno tsunami o da un’epidemia possono diventare un pericolo sociale e politico, e quindi anche militare. E il moltiplicarsi delle emergenze umanitarie in giro per il mondo, avverte il National Intelligence Council, rischia di impegnare risorse militari destinate alle attività belliche vere e proprie.L’innalzamento del livello dei mari cambia già oggi lo scenario di eventuale guerra, mettendo a rischio diverse postazioni americane. Alcune basi dell’aviazione in Florida sono state distrutte o danneggiate dagli ultimi uragani, e il livello dell’oceano in aumento costringe a riprogettare le basi navali a Norfolk e San Diego. Ancora più a rischio è la base a Diego Garcia, l’atollo nell’oceano Indiano snodo cruciale per le forze americane e britanniche in Medio Oriente. L’isolotto è praticamente a livello del mare, e potrebbe venire sommerso se le previsioni sull’innalzamento degli oceani si avverassero. Lo scioglimento dei ghiacci apre invece un «buco» nelle difese polari: nella calotta artica si apre un canale navigabile che richiedere la revisione di tutti i piani strategici di diversi Paesi.Un esempio di guerra «clima-dipendente» esiste già, dice al New York Times John Kerry, ex candidato democratico alla presidenza e oggi, da presidente del Comitato per le relazioni internazionali del Senato, capofila di questa nuova battaglia ecologico-strategica. E’ il Sudan meridionale, dove la siccità e la crescita dei deserti ha ucciso o costretto alla fuga decine di migliaia di persone, producendo un conflitto per ora senza soluzione: «E’ un’esperienza destinata a ripetersi, e su scala sempre più vasta», dice il senatore, che per conto di Barack Obama si appresta a convincere il Senato ad approvare il pacchetto di leggi sul clima e l’energia già votato a giugno dalla Camera. Userà, tra gli altri, il nuovo argomento della minaccia strategica derivante dal mercurio in inarrestabile aumento. L’altra alleata di Obama è Hillary Clinton, che da senatrice aveva autorizzato, nel 2008, modifiche al budget del Pentagono per includere i cambiamenti climatici nei piani strategici. Ci sarà per la prima volta una sezione dedicata al clima nel suo rapporto sulla Difesa che uscirà a febbraio, e il Dipartimento di Stato - oggi guidato proprio da Hillary - farà altrettanto nel suo rapporto su diplomazia e sviluppo. Diverse agenzie di intelligence stanno studiando i vari risvolti del cambiamento climatico, anche a livello delle singole nazioni, per capire se i vari governi riusciranno a reggere la pressione di calamità naturali che producono terremoti sociali, economici e umani. «Dovremo pagare per il cambiamento climatico, in un modo o in un altro», dice il generale Anthony C. Zinni. «O pagheremo per ridurre le emissioni di gas serra, con ripercussioni economiche. O pagheremo il prezzo più tardi, in termini di impiego militare, e di vite umane».
L'AUTO IBRIDA PIU ECOLOGICA
Chevrolet Volt, ecco l'auto più «risparmiosa» del mondo
L'ibrida rivoluzionaria: metà elettrica, metà benzina. Con un litro di verde percorrerà quasi 100 km: «Sarà l’auto della riscossa Gm». Ma costerà 40 mila euro
L’auto che tutti sognano è quasi pronta. Si chiama Chevrolet Volt è si annuncia come l’auto più risparmiosa del mercato: con un litro di verde percorrerà oltre 90 km, «precisamente 98», afferma il nuovo numero 1 di General Motors, Fritz Henderson. «Sarà l’auto della riscossa Gm, quella che ci consentirà di risalire la china e di trasformare i bilanci da negativi in profittevoli», dichiara Henderson, che si aspetta un cash flow positivo nel 2010 e profitti l’anno seguente.
40.000 DOLLARI - Henderson, comunque, è consapevole che la Volt all’inizio non genererà profitti. Sono stati molto elevati, infatti, i costi di sviluppo della vettura. Anche il prezzo non sarà alla portata di tutti: 40.000 dollari. Ma Gm con la Volt, che andrà in vendita nel 2010 negli Stati Uniti e nel 2011 in altri paesi, punta a creare una nuova immagine, di società che rispetta l’ambiente, e di guadagnare così nuove quote di mercato.
TRAZIONE ANTERIORE - La Volt è una berlina a coda tronca con quattro porte, portellone e cinque posti. È lunga 440 cm, larga 170 con un passo di 260 e offre una capacità di carico nel baule di 315 litri. Si caratterizza per essere un'auto a trazione anteriore che viene sempre spinta da un motore elettrico. Una volta esaurita la carica delle batterie (circa 65 km di autonomia), si aziona un motore a scoppio in grado di funzionare sia a benzina sia con miscela E85 (verde+etanolo), che genera l'elettricità necessaria per aumentare l'autonomia totale.
ELIMINA L’ANSIA DA AUTONOMIA - Questa modalità di funzionamento prolunga l'autonomia della Volt di diverse centinaia di chilometri, consentendo di ricaricare con comodo la batteria del veicolo. A differenza di un tradizionale veicolo elettrico a batteria, la Volt elimina l'ansia da autonomia, creando fiducia e tranquillità nel conducente, che non rimarrà mai a piedi perché la batteria è scarica. Con il pieno di elettricità e quello di benzina l’autonomia sale a 480 km circa.
AERODINAMICA ANTICONSUMI - L'originale forma aerodinamica della vettura contribuisce a migliorare i consumi di carburante ed il comportamento su strada. Il profilo anteriore tondeggiante e privo di sporgenze della Volt, la griglia e gli angoli smussati hanno una valenza funzionale, migliorando la penetrazione nell'aria della vettura. Nella parte posteriore, gli spigoli decisi e uno spoiler dalla forma rigorosamente studiata garantiscono un deflusso rapido dell'aria. La notevole inclinazione del parabrezza e del lunotto posteriore favoriscono la riduzione delle turbolenze e della resistenza aerodinamica.
IL PIENO IN TRE ORE - Secondo Henderson, gli utenti che percorrono 100 km al giorno potrebbero risparmiare anche 2.200 litri di benzina all'anno, rispetto a coloro che utilizzano una vettura di dimensioni analoghe che consuma mediamente 7,8 litri ogni 100 km. Volt è un modello della categoria plug-in, poiché può “fare il pieno” collegandosi per circa 3 ore a una presa elettrica domestica standard a 220 V. GM prevede che la ricarica notturna completa per percorrere i 65 km costerà meno di un Euro ed ogni anno si consumerà un quantitativo di energia elettrica inferiore a quella necessaria per un frigorifero o un congelatore.
TUTTI I COMFORT - Gli interni di Volt offrono spazio, comfort, praticità e caratteristiche di sicurezza che il cliente si aspetta da una berlina a quattro posti, disponibile in una vasta gamma di opzioni per quanto riguarda il colore, l'illuminazione e i rivestimenti, per un livello di personalizzazione mai raggiunto da una berlina Chevrolet. La strumentazione moderna e la bellezza dei materiali, due display informativi e il centro di intrattenimento dotato di un sistema di controllo a sfioramento con selettore integrato sono caratteristiche esclusive degli interni di Volt che non si trovano in altre vetture sul mercato.
FACILE DA GUIDARE E SILENZIOSA - Su strada, Chevrolet Volt garantisce prestazioni brillanti e una silenziosità eccezionale. La batteria agli ioni di litio fornisce potenza in abbondanza e il motore elettrico eroga l'equivalente di 150 cv (110 kW), con una coppia istantanea di 370 Nm per una velocità massima di oltre 160 km/h. L'assenza di emissioni acustiche del motore, abbinata ad una speciale cura dei materiali, rendono la guida di Chevrolet Volt estremamente silenziosa.
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